Autore: admin1356

AGI – Primi anni ’90: in una scuola media di Cesano Maderno  un adolescente silenzioso e complessato di modesta famiglia meridionale si affaccia al mondo privo di armi contro la sua congenita crudeltà. Questo, a grandi linee, il quadro in cui si sviluppa  ‘Scuola di solitudine’ (La nave di Teseo) di Crocifisso Dentello, tra fiction e  auto fiction, denuncia sociale e  riflessione amara su come la vita ci segni indelebilmente fin da piccoli. Il bullismo è un tema del nostro tempo, così come l’incapacità di comunicare: si può strutturalmente fare qualcosa per aiutare  i ragazzi a crescere in un clima culturale che non traumatizzi i più deboli? Lo abbiamo chiesto proprio a Crocifisso Dentello.

 

‘Scuola di solitudine’ è una denuncia

 

Sì tratta del racconto di un personale percorso di solitudine, ma anche della descrizione di un’epoca in cui non esisteva una  sensibilità sul bullismo da parte degli insegnanti e in generale degli adulti; nei ‘90 i ragazzini agivano indisturbati ed alcuni temi erano estranei al dibattito culturale. Oggi la realtà è cambiata e disponiamo di altri strumenti di giudizio, ma allora questa violenza definibile come morbida, abbastanza quotidiana e non particolarmente eclatante, rientrava nella normalità senza essere percepita come sopruso.  Faceva parte del corso delle cose: erano sempre andate così e si riteneva  dovessero continuare a farlo.

 

La scuola italiana è inadeguata alla varietà dei problemi dell’adolescenza

 

Non voglio dire anche nel mio caso non vi siano mai state prove di sensibilità e attenzione, ma in generale i bambini problematici rappresentano sempre  un inciampo, per i compagni di classe e gli insegnati. Come ho detto, oggi forse disponiamo di altri strumenti, ma un ragazzo che nel gruppo classe esprime un handicap psicologico incarna comunque un problema non semplice da gestire. Alla fine del libro mi rammarico di non avere reagito da bambino, perché con gli anni ho imparato che una vittima non deve  mai sopportare i soprusi illudendosi che possano aver fine. Se avessi avuto la forza di rispondere ai torti le cose sarebbero andate diversamente, ma  mi era difficile raccontare alcuni episodi anche a casa: in qualche modo la vittima vive a una doppia umiliazione nel rinnovare il ricordo di quanto subito. Restare in silenzio è però un errore. Una volta coinvolti, gli adulti hanno possono dare degli strumenti di comprensione ai ragazzi; dopo di che, a mio avviso, è necessario restino fuori dal loro microcosmo: vittime e bulli devono trovare un modo di dialogare, in dinamiche inviolabili dai grandi, ma all’interno delle quali può crearsi una possibilità di miglioramento.

 

I ricordi di infanzia condizionano tutta la vita

 

Nel mio caso sì, ma credo valga per tutti. Quello che sono oggi, al netto delle conquiste raggiunte, deriva da ciò che ho visto durante la fanciullezza, dove risiede il nucleo più vero e profondo di ognuno di noi. Da grandi viviamo il riflesso del mondo conosciuto da bambini. Il senso di solitudine con cui sono cresciuto  mi accompagna ancora,  per di più acuito dalla perdita di mia madre. Credo sia importante ricordare che i giovanissimi non sono sempre spensierati come vengono usualmente descritti e possono esistere infanzie terribili anche nell’ambito della cosiddetta normalità.

 

Oggi il bullismo corre sui social, come va affrontato il cambiamento?

 

Non sono un esperto e non so se sia giusto condividere le opinioni estreme di chi pretenderebbe che per entrare nei social sia necessario un meccanismo di riconoscimento personale. La mia opinione è che, nell’impossibilità di eliminare il male ed i bulli, si debba lavorare sulle vittime, anche solo potenziali. I ragazzi vanno aiutati a capire che bisogna trovare la forza interiore di resistere e ignorare i leoni da tastiera, e che al tempo stesso non va mai lasciato passare il segno. Non appena si configurano serie situazioni di disagio, il cyber bullismo va denunciato.

 

Già nel 2019, nel suo saggio ‘Bianco’, Bret Easton Ellis attaccava la tendenza al vittimismo della ultime generazioni: qual è a suo avviso il discrimine tra pura autocommiserazione e farsi paladini di una necessaria battaglia civile?

 

Il confine si è fatto ormai molto sottile e dipende dalla coscienza di ciascuno di noi. Oggi la tendenza ad autocommiserazione e denuncia diventano spesso spettacolo nel flusso social, e le vittime, inconsapevolmente, possono trasformarsi in protagonisti. E’ importante, quanto complicato,  distinguere ogni singolo caso, ma di certo anche il vittimismo può divenire artefatto. Ho raccontato il mio dolore, ma resto consapevole che ogni volta che condividiamo pubblicamente il privato stiamo realizzando – anche se sinceri – un’alterazione della realtà, entrando nella corrente di uno show senza pause che prevede delle derive. Si è creato un corto circuito, che da scrittore recepisco e riconosco, ma non saprei  risolvere.

 

In una società votata alla ricerca della perfezione, come evitare che questo paradigma finisca per danneggiare i singoli individui?

 

Sono pessimista: è dalla tendenza a trasferire nella realtà dei modelli di perfezione virtuale astratta che nasce il problema, soprattutto per le nuove generazioni. Se è evidente che trovare la forza di resistere al paradigma di bellezza fisica imperante risulta ormai impossibile, è altrettanto chiaro che dalla mancata aderenza al modello dominante può nascere il bullismo. Un corpo che non corrisponda ai canoni è semplicemente sbagliato, e come tale può essere offeso, denigrato e insultato. Ho detto che bisogna resistere ai bulli provando a  ignorarli, ma per un ragazzino non è semplice.  La tirannia dell’estetica riguarda anche il vestiario: l’emarginazione dal gruppo comincia dalla mancanza della griffe, delle scarpe o dei jeans giusti da indossare. E la responsabilità parte dagli stessi genitori, che spesso sono i primi ad aver fatto propri alcuni stilemi legati al look. E’ insomma un cane che si morde la coda: siamo tutti dentro un sistema sbagliato e temo che uscirne sia estremamente difficile.

 

 

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