Autore: admin1356

AGI – Da oggi in Toscana non ci potranno più essere cani tenuti legati alla catena. La giunta regionale ha approvato in via definitiva il regolamento che lo vieta, dopo il primo si’ che c’era stato lo scorso dicembre e il successivo passaggio nella commissione del Consiglio regionale preposta, che si è espressa con parere favorevole. Il divieto ha valenza immediata. Varrà tutto l’anno e non solo d’estate come è stato nel 2023, quando tenere i cani legati alla catena fu proibito con ordinanza dal presidente Giani perché con il caldo e il pericolo di incendi gli animali rischiavano di morire, come a volte è purtroppo successo.

 

Con l’atto si modifica ora formalmente il regolamento del 2011 che ancora, sia pur in via eccezionale e per un massimo di sei ore al giorno e catene lunghe almeno sei metri, prevedeva la possibilità di tenere un cane legato. Il fenomeno dei cani alla catena è più diffuso di quanto si possa credere e il precedente regolamento non definiva in maniera puntuale in quali casi eccezionali un cane potesse essere tenuto in questa condizione, lasciando di fatto il tutto alla discrezionalità dei singoli. Da qui la scelta di cancellarne la possibilità e di definire in maniera più rigorosa il divieto.

 

La Toscana segue la strada già imboccata da Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Umbria, Marche, Lazio, Campania, Abruzzo, Puglia e provincia di Trento. In Italia non esiste alcuna legge nazionale applicabile su tutto il territorio che vieti questa pratica. Con la modifica del regolamento, la Toscana vieta “la custodia del cane alla catena o con mezzi di contenimento similari”.

 

E definisce in maniera precisa le eccezioni, ovvero di fronte a casi di “comprovate ragioni sanitarie o per urgenti misure di sicurezza”. “Si tratta di una norma di civiltà: tenere un cane alla catena può avere serie conseguenze, psichiche e fisiche, per lo sviluppo degli animali” commenta il presidente della Toscana, Eugenio Giani. “Vietare questa pratica aiuterà ad accrescere il loro benessere” commenta l’assessore al diritto alla salute, Simone Bezzini. 

AGI – La simulazione del lancio di una bomba atomica su Roma, una visita “immersiva” dei luoghi della memoria di Hiroshima e Nagasaki attraverso un visore e le esperienze degli “hibakusha”, i sopravvissuti allo scoppio delle bombe atomiche: tutto questo in una versione totalmente rinnovata e rivista dal punto di vista contenutistico, grafico ed espositivo. “Senzatomica. Trasformare lo spirito umano per un mondo libero da armi nucleari” inaugura il 20 marzo 2024 a Roma. L’esposizione si svolgerà presso l’Ospedale delle Donne – piazza S. Giovanni in Laterano, 74, fino al 18 maggio 2024 e sarà aperta dal lunedì al giovedì dalle 9:00 alle 19:00, dal venerdì alla domenica dalle 9:00 alle 20:00 (ultimi ingressi un’ora prima della chiusura). La mostra Senzatomica è rivolta in particolare ai giovani e offre percorsi personalizzati e materiali didattici adatti per ogni ordine e grado scolastico, a partire dalla quarta elementare. Accompagnati lungo il percorso della mostra da volontari appositamente formati, gli studenti potranno approfondire la storia della bomba atomica, il concetto di deterrenza nucleare, le azioni della società civile e il valore della trasformazione interiore per realizzare un mondo libero da armi nucleari. L’ingresso è gratuito con possibilità di prenotazione per le scuole (mail: scuole.roma@senzatomica.it). La mostra, realizzata grazie ai fondi dell’8×1000 dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, è un’esposizione itinerante che farà tappa in diverse città italiane ed è patrocinata da: Roma Capitale, Regione Lazio, Città metropolitana di Roma Capitale, Conferenza delle Regioni e delle Province autonome e Rete delle Università italiane per la Pace. 

AGI – La pace sottoscritta a Riga il 18 marzo 1921 tra la Polonia e la Russia bolscevica è non solo un eclatante esempio di contraddizioni tra premesse e risultati, ma anche il vetrino d’incubazione in cui germinerà il Patto Ribbentrop-Molotov del 23 agosto 1939 e lo scoppio della seconda guerra mondiale. Eppure se ne parla assai poco anche in relazione all’attuale conflitto tra Russia e Ucraina, nonostante i semi dell’odio siano stati gettati proprio in quell’occasione. A Riga si pose fine, per quanto temporaneamente, alle turbolenze che avevano attraversato l’Europa centro-orientale con la caduta degli imperi dei Romanov, degli Asburgo e degli Hohenzollern.

 

Se il problema polacco – riemerso con prepotenza dopo una serie di sfortunate rivolte che avevano sistematicamente scandito i 123 anni di spartizione tra Russia, Prussia e Austria – era stato legittimato nel 1918 anche in uno dei 14 Punti per una pace giusta del presidente americano Woodrow Wilson, la questione del nazionalismo ucraino era nuova e persino assai più complessa. Carlo I d’Asburgo (1887-1922), per cercare di salvare il trono, dopo la pace di Brest-Litovsk aveva firmato un trattato con l’autoproclamata Repubblica ucraina concedendole parte della regione di Lublino e la parte ucraina della Galizia che era invece rivendicata da Varsavia, la quale vagheggiava la ricostituzione dello Stato secondo le ultime frontiere legali, quelle del 1772, non più etnicamente sostenibili. La situazione fluida aveva portato la Polonia ad allearsi nel 1920 con i nazionalisti ucraini dell’atamano Symon Petljura per rovesciare il regime bolscevico in cambio di concessioni territoriali, e a decidere di conquistare la frontiera orientale, non fissata dal Trattato di Versailles, con la forza militare.

La guerra e la dottrina di Lenin

La guerra contro la Russia di Lenin, iniziata con scaramucce, era esplosa in tutta la sua virulenza proprio nel 1920. L’Armata Rossa, dopo un iniziale sbandamento, era passata alla controffensiva e aveva respinto in maniera travolgente l’esercito polacco arrivando a minacciare la capitale. La caduta di Varsavia significava molto più che la sconfitta. Lenin aveva le idee chiare in proposito, perché la Polonia era ritenuta il trampolino di lancio della rivoluzione in Germania; la distruzione dell’esercito polacco e la sovietizzazione del Paese, inoltre, avrebbero incrinato fino a farlo crollare l’intero sistema uscito dal trattato di Versailles su cui si basava tutto il sistema dei rapporti internazionali. Il disastro al quale era avviata la Polonia da un lato aveva fatto scaturire la necessità di trattative con i bolscevichi, dall’altro spinto le potenze europee a sostenere militarmente Varsavia nonostante il boicottaggio dei lavoratori portuali inglesi e tedeschi che simpatizzavano per i bolscevichi ostacolando l’invio delle forniture.

Rovesciamento di fronte

Nel momento più critico e a un passo dal crollo, il cosiddetto “miracolo della Vistola” del 15 agosto 1920 improvvisamente ribaltò la situazione. Un audace piano – che in malafede si attribuirà ai generali francesi mentre era frutto del genio militare del Maresciallo Jozef Piłsudski e del generale Wladysław Sikorski – porterà a spezzare l’assedio e in due tronconi l’esercito bolscevico, mettendolo in rotta. Le trattative di pace intavolate in un primo momento a Minsk venivano spostate il 2 settembre a Riga, in Lettonia, ma adesso con la Polonia in posizione di forza e con le sue truppe che avanzavano a est senza più argine. L’Armata Rossa, ritenuta fin allora invincibile, era stata fatta a pezzi, 200.000 soldati erano stati ricacciati al di là del fiume Bug, in mani polacche c’erano oltre 70.000 prigionieri, la cavalleria aveva dovuto sconfinare in Prussia orientale per non essere annientata e la pace era diventata una priorità assoluta per la dirigenza bolscevica ancora impegnata a fronteggiare i Bianchi controrivoluzionari. Risuonavano grottesche le parole del generale Mikhail Tuchacevskij lanciate appena il 2 luglio come ordine del giorno: “La via della rivoluzione mondiale passa sul cadavere della Polonia bianca. Avanti verso Vilnius, Minsk, Varsavia! Avanti!”.

Gli errori della diplomazia

La delegazione polacca guidata da Jan Dąbski il 12 ottobre firma col diplomatico russo Adolf Abramovic Joffe i preliminari di pace, non riuscendo però a gestire politicamente il successo militare. Il progetto federalista del maresciallo Piłsudski di creare un sistema di stati cuscinetto a guida polacca si era sgretolato, anche per le resistenze interne, creando le premesse per frizioni e attriti proprio con i Paesi che ne avrebbero dovuto far parte. Il trattato firmato a Riga il 18 marzo 1921 con la Repubblica socialista federativa russa e le Repubbliche socialiste sovietiche ucraina e bielorussa, all’indomani del soffocamento della rivolta dei marinai di Kronstadt, assegnava alla Polonia le province di Vilnius (compresa la città), Minsk (senza la città), Białystok, Bielsk, Równo, la Galizia, parte della Volinia e di Grodno, andando ad avvelenare i rapporti con la Lituania, l’Ucraina e la Bielorussia. A queste ultime due realtà veniva riconosciuto il diritto di autodeterminazione, il che significava consegnarle alla sovietizzazione, come peraltro avverrà ufficialmente nel 1922 con l’ingresso nell’URSS.

 

Petljura verrà abbandonato al suo destino, evidente anche dal fatto che l’alleanza polacco-ucraina escludeva la pace separata. Nei territori annessi dov’era forte la presenza ucraina si svilupperà un forte terrorismo antipolacco che non sarà mai domato da Varsavia. Il trattato di Riga non era una soluzione per nessuno, ma era una pace tattica in attesa di tempi migliori per regolare i conti, soprattutto da parte russa. Stalin coverà sempre il desiderio di vendetta sulla Polonia, anche per il bruciante smacco a Varsavia del 1920 cui non erano estranei i suoi errori strategici, e raggiungerà l’obiettivo alleandosi con Hitler nel 1939 per spartirsi la Polonia e definendo le sfere di influenza sulle Repubbliche baltiche rimaste indipendenti. Dopo l’invasione del 17 settembre, davanti al Soviet supremo Molotov definirà la Polonia «vile bastardo del trattato di Versailles».

La farsa dei referendum

La parte orientale della Polonia occupata verrà subito chiamata Bielorussia occidentale e Ucraina occidentale, e qui i sovietici organizzano per il 22 ottobre 1939 elezioni sotto l’incondizionata sorveglianza dei commissari del popolo e dell’Armata Rossa a presidio dei seggi, con lo scopo di assicurare al partito il 100% dei voti a testimonianza della “spontanea” volontà delle popolazioni a recarsi alle urne. E in effetti votò il 99,8% degli elettori, compattamente per Stalin, attraverso 2.400 candidati unici ricavati in massima parte dai quadri dell’Armata Rossa (non c’erano abbastanza comunisti locali) i cui soldati partecipavano pure al voto. Scontato quindi che alla prima riunione dei delegati il 27 ottobre a Leopoli e il 29 a Białystok, venisse chiesta l’annessione all’URSS, e scontato pure che il Soviet supremo, con decreti del I e del 2 novembre, prendesse atto dell'”espressione spontanea della volontà della popolazione”, accogliendo la Bielorussia occidentale e l’Ucraina occidentale rispettivamente nella Repubblica socialista sovietica bielorussa e in quella ucraina. Tale situazione di frontiera sarà replicata nel 1945. Poi nel 1991, crollata l’Unione sovietica e fallito il velleitario sistema della Comunità degli stati indipendenti, la riemersione dell’identità nazionale nell’ex impero entrerà in rotta di collisione con il nazionalismo della Russia di Putin.

 

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