L’alpinista iraniana si racconta in un libro
Autore: admin1356
Investono anche Toyota, Volkswagen, GM e Hyundai
Ospite a Cinque Minuti: “Il mio futuro è un presente allargato”
Dai diversi tipi di pasta ai brodi, agli utensili necessari
AGI – Il prossimo venerdì 8 marzo, in occasione della Giornata Internazionale della Donna, ‘C’è ancora domani’ di Paola Cortellesi tornerà in programmazione in oltre 150 cinema. Delia (Paola Cortellesi) è la moglie di Ivano, la madre di tre figli. Moglie, madre. Questi sono i ruoli che la definiscono e questo le basta. Siamo nella seconda metà degli anni 40 e questa famiglia qualunque vive in una Roma divisa tra la spinta positiva della liberazione e le miserie della guerra da poco alle spalle. Ivano (Valerio Mastandrea) è capo supremo e padrone della famiglia, lavora duro per portare i pochi soldi a casa e non perde occasione di sottolinearlo, a volte con toni sprezzanti, altre, direttamente con la cinghia. Ha rispetto solo per quella canaglia di suo padre, il Sor Ottorino (Giorgio Colangeli), un vecchio livoroso e dispotico di cui Delia è a tutti gli effetti la badante.
L’unico sollievo di Delia è l’amica Marisa (Emanuela Fanelli), con cui condivide momenti di leggerezza e qualche intima confidenza. È primavera e tutta la famiglia è in fermento per l’imminente fidanzamento dell’amata primogenita Marcella (Romana Maggiora Vergano), che, dal canto suo, spera solo di sposarsi in fretta con un bravo ragazzo di ceto borghese, Giulio (Francesco Centorame), e liberarsi finalmente di quella famiglia imbarazzante. Anche Delia non chiede altro, accetta la vita che le è toccata e un buon matrimonio per la figlia e’ tutto cio’ a cui aspiri. L’arrivo di una lettera misteriosa pero’, le accenderà il coraggio per rovesciare i piani prestabiliti e immaginare un futuro migliore, non solo per lei.
Dai diversi tipi di pasta ai brodi, agli utensili necessari
Ancora visibili le due prede imprigionate fra i tentacoli
Replica alle indiscrezioni riportate dai media americani
AGI – Dopo oltre 25 anni dall’assassinio, del sindacalista Mico Geraci, avvenuto l’8 ottobre 1998, la procura di Palermo ha individuato chi avrebbe commissionato e pianificato, per conto del boss Bernardo Provenzano, l’omicidio. Si tratta di due esponenti della famiglia di Trabia, cittadina alle porte del capoluogo siciliano, già detenuti per altri reati, nei confronti dei quali è stata emessa un’ordinanza di custodia cautelare.
La Direzione Distrettuale di Palermo, spiega il procuratore della Repubblica Maurizio de Lucia, è riuscita “a ricostruire minuziosamente quell’efferato delitto definito, per molto tempo, ‘senza verità e giustizia”.
Le numerose indagini svolte, sia nell’immediatezza dei fatti, da parte della Procura di Termini Imerese sia, successivamente, in seguito alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Nino Giuffrè, da parte della Procura di Palermo non consentirono di delineare le dinamiche e il contesto dell’omicidio. In tempi più recenti, prosegue la procura di Palermo, la commissione parlamentare Antimafia della XII legislatura si è occupata del caso, dedicandovi un’apposita inchiesta dalla quale è scaturita una relazione contenente nuovi spunti di approfondimento, poi trasmessa alla magistratura. A sua volta la procura, che sottolinea il proprio impegno nella “ricostruzione dei gravi crimini rimasti impuniti”, ha acquisito attraverso ulteriori indagini “inediti elementi di prova che hanno permesso sia l’individuazione, con elevata probabilità, dei mandanti dell’omicidio e dei suoi esecutori materiali, sia di collocare l’assassinio nell’ambito delle strategie fondamentali dell’associazione Cosa nostra e, dunque, dei suoi massimi esponenti”.
Cold case italiano
La sera in cui Domenico Geraci fu ucciso, il sindacalista avrebbe dovuto avere una cena con alcuni assessori del comune di Caccamo, nel Palermitano, per discutere del loro passaggio dal gruppo consiliare dell’allora primo cittadino Nicasio Di Cola a quello dello stesso Geraci, che si apprestava a candidarsi come sindaco per l’Ulivo nelle elezioni della tarda primavera del 1999. Alle ore 20.50 circa, dopo aver salutato l’amico che lo aveva accompagnato con l’auto, suonò al citofono della propria abitazione. Fu in quel momento che il killer agi’, sparando contro di lui sei colpi di fucile, ed erano poi fuggiti, inseguiti dalle urla della moglie e del figlio maggiore del sindacalista, che, attirati dal rumore degli spari, si erano affacciati alla finestra.
Il killer si infilò in una utilitaria Fiat, rimasta ad attenderlo con i fari spenti e il motore acceso. Quei due uomini, ha ricostruito la procura di Palermo muovendosi sugli spunti offesi dalla relazione della commissione parlamentare Antimafia della XVII legislatura (presidenza Rosy Bindi), poi finirono ammazzati a loro volta in uno dei tanti regolamenti dei conti mafiosi di quegli anni. Uno dei due venne ucciso da chi aveva commissionato quell’omicidio, ovvero, secondo la procura, Salvatore e Pietro Rinella, due fratelli ed entrambi appartenenti alla famiglia mafiosa di Trabia.
Le indagini, spiega la relazione della Commissione parlamentare Antimafia, non individuarono immediatamente la matrice mafiosa del delitto, messa in dubbio da “alcuni elementi quali la mano inesperta del killer che dovette sparare più colpi, la circostanza inusuale che l’assassino agi’ probabilmente da solo; la circostanza, altrettanto inusuale – si legge nella Relazione – che l’autovettura usata per il delitto era stata oggetto di furto poche ore prima dell’omicidio”.
A complicare il quadro c’era il fatto che Nino Giuffrè, capo del mandamento di Caccamo, di quell’omicidio poco sapeva poiché i Rinella ubbidivano direttamente al boss corleonese Bernardo Provenzano, e da quest’ultimo avevano ricevuto l’ordine sanguinario. Giuffrè, in ogni caso, mise insieme i pezzi di un mosaico di eventi, e indicò la matrice mafiosa delitto. Tra lui e Provenzano, sostiene la Relazione, c’era stato un “difetto di comunicazione” che aveva fatto si’ che il capo mandamento non fosse stato informato della perpetrazione del delitto.
Nel giugno del 2005 il procedimento venne archiviato, ma la famiglia del sindacalista ha costantemente insistito per la riapertura del caso. Il 16 luglio del 2014 toccò a Giuseppe Geraci, figlio maggiore di Mico, raccontare alla Commissione quel giorno di 25 anni fa: “Quando è morto mio padre io avevo diciannove anni. Ricordo che ero fuori casa. Io stesso ho ricordi confusi di quel momento, perché vedevo persone che andavano e venivano, vedevo mia madre che teneva mio padre, con il corpo riverso in una pozza di sangue. Chiesi ‘cosa è successo?’, poiché ancora non avevo la nitida percezione di quanto fosse appena accaduto. Mia madre disse: ‘Gli hanno sparato’. Si senti’ male lei, mi sentii male io. Mio fratello era agitatissimo, anche perché lui dall’alto aveva visto consumarsi l’omicidio. È stato un momento tremendo. È chiaro che col tempo abbiamo dovuto gestire una situazione che è stata più grande di noi. Qualcuno fortunatamente ci ha aiutato, però le difficoltà sono state tante, anche perché, come spesso capita ahimè in queste situazioni, subito in paese cominciavano a girare delle voci che attribuivano la natura dell’omicidio a contesti totalmente diversi. Un articolo su Panorama (scrisse) anche delle cose poco opportune, che mio padre era una persona discussa e che avrebbe fatto da tramite tra la mafia e ambienti inquinati della sinistra. Io mi sono dovuto difendere, ho dovuto agire giudizialmente. Dico questo perché purtroppo c’era un’opinione molto diffusa e questo faceva malissimo a me e alla mia famiglia, perché alla perdita di un proprio caro si univano anche i sospetti di personaggi autorevoli, che anzitutto avrebbero dovuto tutelare noi e la memoria di mio padre. Questo ci dava la misura di quanto ancora la verità fosse lontana e di quanto ancora nell’opinione pubblica le convinzioni su questo omicidio fossero diversificate”.
Furono ipotizzati diversi moventi del delitto, dalla la vita politica di Geraci, che si era avvicinato al deputato dei Ds Beppe Lumia; all’impegno antimafia degli ultimi tempi; l’attività svolta nel comune fino alle vicende connesse con l’approvazione del piano regolatore e all’operato di sindacalista presso la UIL in cui si occupava di contributi per agricoltori e allevatori. Geraci aveva già subito intimidazioni. “Il movente mafioso – si legge nella Relazione – si potrebbe verosimilmente profilare in ragione dell’attività politica e sindacale di Geraci che metteva in crisi il contesto politico mafioso del territorio. A pochi mesi dalla sua uccisione, infatti, si svolsero le elezioni comunali a Caccamo e la sua candidatura era la più accreditata per un eventuale successo. Da mesi a Caccamo si organizzavano iniziative sociali e progettuali per preparare questa candidatura con un coinvolgimento inedito di larghi strati della società. Un’iniziativa in particolare destò clamore nel luglio del 1998 perché a Caccamo si organizzò, forse per la prima volta, una manifestazione antimafia dove furono chiamati in causa boss mafiosi e denunciati gli interessi che ruotavano intorno alla mafia del territorio, anche alla luce di un’importante operazione giudiziaria svoltasi poche settimane prima. A Caccamo era decaduto – per uno strano meccanismo elettorale siciliano dell’epoca – il solo consiglio comunale, mentre il sindaco era rimasto in carica. Il 30 novembre 1997, si erano svolte le elezioni per il solo consiglio comunale, facendo registrare un grande successo per le liste alleate che appoggiavano la candidatura di Geraci”
Il territorio di Caccamo era decisivo per Cosa Nostra, poiché “raccoglieva intorno a sè diversi comuni, tra cui Termini Imerese e Trabia sulla costa sino a Bagheria, e i comuni di Cerda e Montemaggiore nella parte della zona montana delle Madonie”.
Cgil, sindacalisti uccisi perchè chiedevano terre, legalità e giustizia
“Sono tantissimi, troppi, gli omicidi di mafia di cui ancora non si conoscono ne’ esecutori ne’ mandanti e tra questi quelli di tantissimi sindacalisti morti in quella che è stata una vera e propria strage di mafia, lunga un secolo. Sindacalisti assassinati dalla mafia perché chiedevano terre, lavoro, giustizia e rispetto delle regole e hanno pagato con la vita, colpevoli di non essersi voltati dall’altra e di aver continuato a difendere i lavoratori. Tutti omicidi rimasti impuniti. L’aspirazione è che per tutti venga fatta verità e giustizia”. Lo dichiarano il segretario generale Cgil Palermo Mario Ridulfo e il responsabile dipartimento Legalità Rosario Rappa.
Lo riceverà il 3 luglio a Roma durante la serata di premiazione