AGI – Da quando si era accorto che in un concerto gli avevano posizionato alle spalle un altro direttore al quale gli orchestrali guardavano perché altrimenti non capivano il suo gesticolare, Ludwig van Beethoven viveva con patimento l’esecuzione delle sue musiche che lui non poteva sentire perché totalmente sordo. Quando aveva diretto la prima di Fidelio era stato un disastro. Il 7 maggio 1824, due secoli fa, dopo dodici anni Beethoven era salito sul palco per la prima della sua Sinfonia n. 9 op. 125, anche se la direzione era del maestro di cappella Michael Umlauf. Alla fine del quarto movimento, dopo aver posato la bacchetta sul podio sopra all’ultima pagina della partitura, era stato lui a prendere per le spalle il compositore e a voltarlo verso il pubblico che lo sommergeva di applausi che poteva vedere ma non ascoltare; e allora quello stesso pubblico che assiepava il Teatro di Porta Carinzia a Vienna cominciò a sventolare i fazzoletti. Secondo altri fu il contralto Caroline Unger a far girare il compositore verso la platea, ma questo dettaglio nulla aggiunge e nulla toglie a quella data e a quell’evento: Beethoven aveva consegnato all’umanità un capolavoro assoluto, non solo il suo capolavoro.
La genesi di un capolavoro
L’aveva meditato dall’età di 23 anni dentro la sua mente, dove la composizione era stata elaborata e assemblata con un’astrazione totale e infine consegnata allo spartito, senza aver mai potuto percepire una sola nota o un solo timbro o un solo impasto sonoro. Anche quella sera, sul palco, era riuscito appena a cogliere qualche vibrazione del registro basso e delle percussioni, ma né le singole parti né le armonie e i contrappunti potevano superare la barriera fisica che un destino particolarmente spietato aveva messo tra lui e la musica che era la sua ragione di vita. Beethoven non è stato un genio perché sordo, il che sarebbe già straordinario, ma è un genio anche grazie alla sordità che lo costringeva a “sentire” quello che non poteva udire.
La Nona sinfonia è nell’Olimpo del repertorio di tutti i tempi, maturazione totale e inarrivata del ciclo sinfonico. L’ultimo movimento dura tanto quanto l’intera prima sinfonia, di 24 anni anteriore, che aveva gettato sconcerto tra il pubblico e tra i critici perché per la prima volta iniziava con un accordo dissonante. I più malevoli la presero per stramberia, non cogliendone la forza anticipatrice, così come molti consideravano errori imputati alla sordità quelle innovazioni armoniche e strutturali che invece anticipavano la nuova musica, portata dal classicismo verso il romanticismo, con contenuti che si distaccavano per originalità a un’età definita sbrigativamente come quella di “Haydn, Mozart e Beethoven”.
Giunto al vertice del suo percorso artistico-espressivo, l’orchestra sinfonica non gli bastava più e la integrò col coro e con i solisti per rilanciare i versi di Friedrich Schiller dell’Inno alla gioia, introdotti in partitura da un pensiero di Beethoven in appena undici toccanti parole. La Nona sinfonia in re minore è nota come “Corale”, dal quarto movimento, con un tema apparentemente semplice che procede per gradi congiunti, di bellezza cristallina e sublime profondità anche a prescindere dal significato delle parole di Schiller. Ma tutto, in questa opera, rivela la lunghissima gestazione che l’ha originata. Lo stesso spartito lo denota, perché contrariamente alla prassi compositiva beethoveniana le cancellazioni, le correzioni, i rimandi e i cambi sono pochissimi.
Due modi per essere un genio
Il genio di Bonn si esprimeva in maniera del tutto dissimile da quello di Salisburgo: Wolfgang Amadé Mozart scriveva infatti di getto dalla prima all’ultima nota quello che aveva già integralmente composto nella sua testa. Beethoven, dunque, più cerebrale e meno spontaneo? Niente affatto. È vero invece che una sinfonia di Mozart si può cantare dall’inizio alla fine, mentre una di Beethoven no, ma proprio perché il linguaggio è un altro e dietro c’è ben altro. Mozart con la musica si staccava dalla vita vissuta, accantonando difficoltà, umiliazioni, crisi, angosce; Beethoven con la musica dalla vita attingeva, ne distillava gli umori, le dava voce e sentimento, ne esprimeva le lacerazioni. E poi il tedesco, rispetto all’austriaco, era più consapevole di essere un genio, tanto da permettersi di disprezzare l’aristocrazia che lo scansava nonostante la fama e il “van” fiammingo nel cognome, e spremendo disinvoltamente conti, duchi e principi per dedicare loro composizioni nella consapevolezza che sarebbero stati ricordati solo tramite lui e solo per questo. Si faceva pagare per aggiungere un nome in partitura, e non avrebbe mai sopportato le umiliazioni inferte a Mozart.
Sregolatezza e leggende
Lui, il misantropo degli affetti e degli amori negati, l’uomo che nuotava nell’arte dei suoni senza potersi immergere in quel mare dominato da un solo senso, lo zio che voleva plagiare il nipote Karl equivocando il concetto di bene, era l’artista sregolato che quando una casa da lui abitata sprofondava nel disordine e nell’incuria semplicemente la cambiava: in 35 anni furono ben 32, e alcune le aveva affittate in contemporanea. Si racconta che la casa viennese dove si spense a 57 anni il 26 marzo 1827 venne letteralmente saccheggiata e gli infissi divelti dai cacciatori di ricordi e di reliquie, perché Beethoven prendeva appunti dove capitava, anche sugli stipiti, in quel suo caos organizzato al quale non riusciva a dare ordine, contrariamente a quello che componeva. Leggenda vuole che sugli assi di legno fossero state scritte le note della sua Decima sinfonia. Un’altra leggenda vuole che superare il fatidico numero 9 nella produzione sinfonica, dopo la Nona di Beethoven, fosse di cattivo auspicio. Antonín Dvorak completò il suo ciclo con la Nona, la celeberrima “Dal nuovo mondo”, e si fermò; Gustav Mahler abbozzò la Decima e non ebbe il tempo di terminarla perché passò a miglior vita; Dmitrij Šostakovič invece ne scrisse quindici senza farsi alcuno scrupolo.
Messaggio universale
Se un giorno nello spazio sarà lanciata una navicella per stabilire un contatto con una civiltà aliena, e a quella navicella intergalattica si dovesse consegnare una summa della civiltà umana, accanto alla Commedia di Dante e alla Gioconda di Leonardo non potrà mancare la Nona di Beethoven. Che tutti conoscono, per averla magari ascoltata in brevissimi frammenti negli spot, per l’inno dell’Unione europea, al cinema e in tv, dalle suonerie dei telefonini, dal web o alla radio. Una storia iniziata due secoli fa e mai interrotta lungo le strade del mondo, che ha affrontato e raccontato i valori universali dell’uomo e dell’umanità, e il suo anelito alla gioia.