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AGI – Il prossimo venerdì 8 marzo, in occasione della Giornata Internazionale della Donna, ‘C’è ancora domani’ di Paola Cortellesi tornerà in programmazione in oltre 150 cinema. Delia (Paola Cortellesi) è la moglie di Ivano, la madre di tre figli. Moglie, madre. Questi sono i ruoli che la definiscono e questo le basta. Siamo nella seconda metà degli anni 40 e questa famiglia qualunque vive in una Roma divisa tra la spinta positiva della liberazione e le miserie della guerra da poco alle spalle. Ivano (Valerio Mastandrea) è capo supremo e padrone della famiglia, lavora duro per portare i pochi soldi a casa e non perde occasione di sottolinearlo, a volte con toni sprezzanti, altre, direttamente con la cinghia. Ha rispetto solo per quella canaglia di suo padre, il Sor Ottorino (Giorgio Colangeli), un vecchio livoroso e dispotico di cui Delia è a tutti gli effetti la badante.

 

L’unico sollievo di Delia è l’amica Marisa (Emanuela Fanelli), con cui condivide momenti di leggerezza e qualche intima confidenza. È primavera e tutta la famiglia è in fermento per l’imminente fidanzamento dell’amata primogenita Marcella (Romana Maggiora Vergano), che, dal canto suo, spera solo di sposarsi in fretta con un bravo ragazzo di ceto borghese, Giulio (Francesco Centorame), e liberarsi finalmente di quella famiglia imbarazzante. Anche Delia non chiede altro, accetta la vita che le è toccata e un buon matrimonio per la figlia e’ tutto cio’ a cui aspiri. L’arrivo di una lettera misteriosa pero’, le accenderà il coraggio per rovesciare i piani prestabiliti e immaginare un futuro migliore, non solo per lei. 

AGI – Dopo oltre 25 anni dall’assassinio, del sindacalista Mico Geraci, avvenuto l’8 ottobre 1998, la procura di Palermo ha individuato chi avrebbe commissionato e pianificato, per conto del boss Bernardo Provenzano, l’omicidio. Si tratta di due esponenti della famiglia di Trabia, cittadina alle porte del capoluogo siciliano, già detenuti per altri reati, nei confronti dei quali è stata emessa un’ordinanza di custodia cautelare.

La Direzione Distrettuale di Palermo, spiega il procuratore della Repubblica Maurizio de Lucia, è riuscita “a ricostruire minuziosamente quell’efferato delitto definito, per molto tempo, ‘senza verità e giustizia”.

Le numerose indagini svolte, sia nell’immediatezza dei fatti, da parte della Procura di Termini Imerese sia, successivamente, in seguito alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Nino Giuffrè, da parte della Procura di Palermo non consentirono di delineare le dinamiche e il contesto dell’omicidio. In tempi più recenti, prosegue la procura di Palermo, la commissione parlamentare Antimafia della XII legislatura si è occupata del caso, dedicandovi un’apposita inchiesta dalla quale è scaturita una relazione contenente nuovi spunti di approfondimento, poi trasmessa alla magistratura. A sua volta la procura, che sottolinea il proprio impegno nella “ricostruzione dei gravi crimini rimasti impuniti”, ha acquisito attraverso ulteriori indagini “inediti elementi di prova che hanno permesso sia l’individuazione, con elevata probabilità, dei mandanti dell’omicidio e dei suoi esecutori materiali, sia di collocare l’assassinio nell’ambito delle strategie fondamentali dell’associazione Cosa nostra e, dunque, dei suoi massimi esponenti”.

 

Cold case italiano

La sera in cui Domenico Geraci fu ucciso, il sindacalista avrebbe dovuto avere una cena con alcuni assessori del comune di Caccamo, nel Palermitano, per discutere del loro passaggio dal gruppo consiliare dell’allora primo cittadino Nicasio Di Cola a quello dello stesso Geraci, che si apprestava a candidarsi come sindaco per l’Ulivo nelle elezioni della tarda primavera del 1999. Alle ore 20.50 circa, dopo aver salutato l’amico che lo aveva accompagnato con l’auto, suonò al citofono della propria abitazione. Fu in quel momento che il killer agi’, sparando contro di lui sei colpi di fucile, ed erano poi fuggiti, inseguiti dalle urla della moglie e del figlio maggiore del sindacalista, che, attirati dal rumore degli spari, si erano affacciati alla finestra.

 

Il killer si infilò in una utilitaria Fiat, rimasta ad attenderlo con i fari spenti e il motore acceso. Quei due uomini, ha ricostruito la procura di Palermo muovendosi sugli spunti offesi dalla relazione della commissione parlamentare Antimafia della XVII legislatura (presidenza Rosy Bindi), poi finirono ammazzati a loro volta in uno dei tanti regolamenti dei conti mafiosi di quegli anni. Uno dei due venne ucciso da chi aveva commissionato quell’omicidio, ovvero, secondo la procura, Salvatore e Pietro Rinella, due fratelli ed entrambi appartenenti alla famiglia mafiosa di Trabia.

 

 Le indagini, spiega la relazione della Commissione parlamentare Antimafia, non individuarono immediatamente la matrice mafiosa del delitto, messa in dubbio da “alcuni elementi quali la mano inesperta del killer che dovette sparare più colpi, la circostanza inusuale che l’assassino agi’ probabilmente da solo; la circostanza, altrettanto inusuale – si legge nella Relazione – che l’autovettura usata per il delitto era stata oggetto di furto poche ore prima dell’omicidio”.

 

A complicare il quadro c’era il fatto che Nino Giuffrè, capo del mandamento di Caccamo, di quell’omicidio poco sapeva poiché i Rinella ubbidivano direttamente al boss corleonese Bernardo Provenzano, e da quest’ultimo avevano ricevuto l’ordine sanguinario. Giuffrè, in ogni caso, mise insieme i pezzi di un mosaico di eventi, e indicò la matrice mafiosa delitto. Tra lui e Provenzano, sostiene la Relazione, c’era stato un “difetto di comunicazione” che aveva fatto si’ che il capo mandamento non fosse stato informato della perpetrazione del delitto.

 

Nel giugno del 2005 il procedimento venne archiviato, ma la famiglia del sindacalista ha costantemente insistito per la riapertura del caso. Il 16 luglio del 2014 toccò a Giuseppe Geraci, figlio maggiore di Mico, raccontare alla Commissione quel giorno di 25 anni fa: “Quando è morto mio padre io avevo diciannove anni. Ricordo che ero fuori casa. Io stesso ho ricordi confusi di quel momento, perché vedevo persone che andavano e venivano, vedevo mia madre che teneva mio padre, con il corpo riverso in una pozza di sangue. Chiesi ‘cosa è successo?’, poiché ancora non avevo la nitida percezione di quanto fosse appena accaduto. Mia madre disse: ‘Gli hanno sparato’. Si senti’ male lei, mi sentii male io. Mio fratello era agitatissimo, anche perché lui dall’alto aveva visto consumarsi l’omicidio. È stato un momento tremendo. È chiaro che col tempo abbiamo dovuto gestire una situazione che è stata più grande di noi. Qualcuno fortunatamente ci ha aiutato, però le difficoltà sono state tante, anche perché, come spesso capita ahimè in queste situazioni, subito in paese cominciavano a girare delle voci che attribuivano la natura dell’omicidio a contesti totalmente diversi. Un articolo su Panorama (scrisse) anche delle cose poco opportune, che mio padre era una persona discussa e che avrebbe fatto da tramite tra la mafia e ambienti inquinati della sinistra. Io mi sono dovuto difendere, ho dovuto agire giudizialmente. Dico questo perché purtroppo c’era un’opinione molto diffusa e questo faceva malissimo a me e alla mia famiglia, perché alla perdita di un proprio caro si univano anche i sospetti di personaggi autorevoli, che anzitutto avrebbero dovuto tutelare noi e la memoria di mio padre. Questo ci dava la misura di quanto ancora la verità fosse lontana e di quanto ancora nell’opinione pubblica le convinzioni su questo omicidio fossero diversificate”. 

 

Furono ipotizzati diversi moventi del delitto, dalla la vita politica di Geraci, che si era avvicinato al deputato dei Ds Beppe Lumia; all’impegno antimafia degli ultimi tempi; l’attività svolta nel comune fino alle vicende connesse con l’approvazione del piano regolatore e all’operato di sindacalista presso la UIL in cui si occupava di contributi per agricoltori e allevatori. Geraci aveva già subito intimidazioni. “Il movente mafioso – si legge nella Relazione – si potrebbe verosimilmente profilare in ragione dell’attività politica e sindacale di Geraci che metteva in crisi il contesto politico mafioso del territorio. A pochi mesi dalla sua uccisione, infatti, si svolsero le elezioni comunali a Caccamo e la sua candidatura era la più accreditata per un eventuale successo. Da mesi a Caccamo si organizzavano iniziative sociali e progettuali per preparare questa candidatura con un coinvolgimento inedito di larghi strati della società. Un’iniziativa in particolare destò clamore nel luglio del 1998 perché a Caccamo si organizzò, forse per la prima volta, una manifestazione antimafia dove furono chiamati in causa boss mafiosi e denunciati gli interessi che ruotavano intorno alla mafia del territorio, anche alla luce di un’importante operazione giudiziaria svoltasi poche settimane prima. A Caccamo era decaduto – per uno strano meccanismo elettorale siciliano dell’epoca – il solo consiglio comunale, mentre il sindaco era rimasto in carica. Il 30 novembre 1997, si erano svolte le elezioni per il solo consiglio comunale, facendo registrare un grande successo per le liste alleate che appoggiavano la candidatura di Geraci”
Il territorio di Caccamo era decisivo per Cosa Nostra, poiché “raccoglieva intorno a sè diversi comuni, tra cui Termini Imerese e Trabia sulla costa sino a Bagheria, e i comuni di Cerda e Montemaggiore nella parte della zona montana delle Madonie”.

 

Cgil, sindacalisti uccisi perchè chiedevano terre, legalità e giustizia

“Sono tantissimi, troppi, gli omicidi di mafia di cui ancora non si conoscono ne’ esecutori ne’ mandanti e tra questi quelli di tantissimi sindacalisti morti in quella che è stata una vera e propria strage di mafia, lunga un secolo. Sindacalisti assassinati dalla mafia perché chiedevano terre, lavoro, giustizia e rispetto delle regole e hanno pagato con la vita, colpevoli di non essersi voltati dall’altra e di aver continuato a difendere i lavoratori. Tutti omicidi rimasti impuniti. L’aspirazione è che per tutti venga fatta verità e giustizia”. Lo dichiarano il segretario generale Cgil Palermo Mario Ridulfo e il responsabile dipartimento Legalità Rosario Rappa.

AGI – Un arco, una piccola serpentina, qualche scalino in alto, per scoprire la via dell’Anima. È la porta d’accesso al piccolo e arroccato borgo di Forenza, prezioso gioiello del Potentino, dove l’arte del cucito di Antonia Murgolo, rappresentante pugliese della Corporazione delle Arti, l’ha fatta da padrona. Tra telai e punti di ricamo antichi, memorie d’un passato che si perde ogni giorno di più, e imperiosa una preziosa scoperta: uno stendardo del Seicento, della chiesa del Santissimo Sacramento di Modugno, nel Barese, ricamato con tecnica giapponese.

“Nessuno poteva immaginare che in Puglia, in quel tempo, conoscessero quella raffinata arte – spiega Murgolo all’Agi -. Ora, per studiarla, impararla, bisogna andare in Inghilterra e noi non possiamo assolutamente perdere questo patrimonio: è mia volontà poter insegnare ai più giovani tutto ciò che ho imparato”. Cinquantasettenne di Bitonto, città alle porte del capoluogo pugliese, Antonia si è diplomata in un istituto tecnico e poi, soltanto dieci anni fa, ha cominciato a studiare da autodidatta le tecniche perdute di ricamo e cucito.

Sono stata sempre appassionata dell’arte del ricamo e dell’uncinetto, da bambina, da quando vedevo scorrere il filo tra le mani di mia nonna – ci racconta -. Ora per me è diventato un lavoro e nutro il sogno di non far morire questo sapere: vorrei recuperare manufatti che stanno andando perduti, assieme a tecniche, tessuti e sete preziose che si ritrovano soprattutto in paramenti sacri e abiti reali”.

Al lavoro nel suo piccolo laboratorio di Modugno, ci sono anche Mariella Desario, Carmela Veneto e Orsola Murgolo: “Ridiamo valore a un vecchio lavoro, ma soprattutto dignità alle donne – dice soddisfatta Antonia -. Non dobbiamo immaginare il cucito come un’arte per donne dietro la finestra, nei palazzi nobili, ma un’arte che prevede fatica, come montare un telaio, che può causare dolore, e per questo indossiamo ditali, ma ridà fiducia e indipendenza a chi lo pratica. Immaginate se ricominciassero i giovanissimi a farlo? Sarebbe meraviglioso”. 

A febbraio 2024, le creazioni di Antonia, Mariella, Carmela e Orsola voleranno alla volta di Torino: “Porteremo abiti, camicie, giacche, create con il tombolo, filet modano, ma anche gioielli in chiacchierino, considerato un pizzo risalente all’epoca Vittoriana, impreziositi da filati pregiati e pietre”. E conclude speranzosa: “L’arte del cucito deve oltrepassare i confini e tornare viva. L’arte non deve morire”.

 

AGI – Almeno 8.565 persone sono morte lungo le rotte migratorie in tutto il mondo nel 2023: è l’anno con il maggior numero di morti mai registrato dal progetto Missing Migrants dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim). La rotta del Mediterraneo è la più letale: 3.129 morti. Il bilancio delle vittime del 2023, spiega l’Oim, è in aumento del 20% rispetto al 2022. “A dieci anni dall’inizio del Progetto Missing Migrants, ci prendiamo un momento per ricordare tutte le vite che sono state perse. Ognuna di queste rappresenta una terribile tragedia che continua a influenzare le famiglie e le comunità per anni a venire”, ha dichiarato Ugochi Daniels, Vice Direttrice Generale dell’Oim.  Il totale delle morti registrate lo scorso anno supera i numeri del 2016, quando persero la vita 8.084 persone, un dato che rimane il più elevato fino al 2023.

 

Se le vie di migrazione regolari e sicure rimangono limitate, centinaia di migliaia di persone tentano ogni anno di migrare in modo irregolare e pericoloso: più della metà delle morti è stata causata da annegamenti, il 9 percento da incidenti stradali e il 7 percento da violenza. A livello regionale, sono stati registrati numeri senza precedenti di morti di migranti in Africa (1.866) e in Asia (2.138). In Africa, la maggior parte di queste morti si è verificata nel deserto del Sahara e sulla rotta marittima verso le Isole Canarie. In Asia, sono stati segnalati centinaia di rifugiati afghani e rohingya morti mentre fuggivano dai loro paesi di origine.
In dieci anni il Progetto Missing Migrants ha documentato più di 63.000 morti in tutto il mondo, ma si stima che il numero reale sia molto più alto a causa delle difficoltà nella raccolta dei dati, specialmente in luoghi remoti come il Parco Nazionale del Darie’n in Panama e lungo le rotte marittime: qui avvengono “naufragi invisibili” in cui le barche scompaiono senza lasciare traccia.

 

Fondato nel 2014 a seguito di due naufragi devastanti al largo della costa di Lampedusa, il Progetto Missing Migrants è riconosciuto come l’unico indicatore che misura il livello di ‘sicurezza’ della migrazione negli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile e nel Global Compact per una Migrazione Sicura, Ordinata e Regolare.

AGI – Momenti di paura questa mattina a Briga Novarese, piccolo centro in provincia di Novara. Un grosso incendio si è sviluppato in un edificio che ospita un micro nido. Le fiamme si sono sviluppate negli uffici e nel magazzino, retrostante l’edificio principale. Rendendosi conto di quanto stava accadendo, le educatrici sono riuscite rapidamente a portare fuori i bambini, tutti di età 
inferiore ai 3 anni e a metterli in salvo. Sul posto sono arrivate due squadre vigili del fuoco di Borgomanero e due squadre
Vigili del Fuoco volontari da Romagnano con autobotte e cestello, Croce Rossa di Borgomanero e Carabinieri di Borgomanero e Gozzano.Ingenti danni alla struttura e molta paura, ma per fortuna tutti illesi.

AGI – Fedez non si arrende, perde la battaglia contro la Codacons ma non si dà per vinto. Da quanto apprende l’AGI gli avvocati del rapper faranno opposizione contro la richiesta, avanzata dal pm di Roma, Maria Caterina Sgrò, di archiviazione di alcune delle querele presentate dal cantante contro i rappresentanti dell’Associazione dei consuatori.

 

“Le espressioni utilizzate dal Presidente Rienzi come ‘sottospecie di cantante’, ‘ignorante’, ‘imbecilli’, ‘ciucci’ sono state ritenute, sorprendentemente, non offensive dalla PM” sottolineano gli avvocati di Fedez che invece ritengono tali espressioni “attacchi personali, finalizzati ad offendere la reputazione del singolo”.

 

Sono invece state trasmesse al Tribunale di Milano altre due querele per diffamazioni relative all’intervista di Rienzi rilasciata a Radio capital e due comunicati del Codacons nel dicembre 2020.

 

AGI – Augustarello sui libri di storia non c’è finito come Buffalo Bill, ma una soddisfazione se la tolse l’8 marzo 1890 quando dimostrò che i butteri dell’agro laziale erano di caratura pari se non superiore ai cowboys che avevano colonizzato il Far West. Augusto Imperiali (1865-1954) prestava servizio per il duca di Sermoneta, Onorato Caetani, il quale aveva raccolto il guanto di sfida lanciato da William Frederick Cody (1846-1917), protagonista dell’epopea della corsa a Ovest della nazione americana che raccontava in giro per il mondo dal 1883 con un gigantesco spettacolo itinerante, il Wild West Show,  approdato a Roma nell’attuale piazza Mazzini, all’epoca non urbanizzata tant’è che vi si tenevano le manovre militari.

 

Buffalo Bill era solito sfidare gli allevatori locali a gareggiare con i suoi cowboys e a batterli, ma era tanta la fama accumulata e tanta la perizia dimostrata nello spettacolo che nessuno accettava. Era però accaduto che durante un pranzo a Palazzo Caetani di via delle Botteghe Oscure la duchessa di Sermoneta avesse detto all’ospite americano di non essere rimasta molto impressionata dall’esibizione perché aveva visto fare le stesse cose dai suoi butteri di Cisterna di Roma con i puledri dell’Agro pontino. E così si stabilì quella singolare disfida, per la quale Buffalo Bill mise in palio mille lire, programmata dopo l’incontro col papa Leone XIII fissato per il 3 marzo.

 

Bagno di folla e incassi record

Le date prescelte furono il 5 e il 7 marzo (poi slittato all’8), e naturalmente per il circo arrivato dagli Stati Uniti ci sarebbero stati incassi stratosferici. Il Messaggero rilanciò sulle sue colonne quel singolare confronto e contribuì a catalizzare una gigantesca folla pagante per biglietti che costavano da 1 a 5 lire: nella prima sfida nel primo pomeriggio del 5 gli incassi superarono le 25.000 lire, nonostante la forte pioggia, e altrettanto avverrà l’8. Il duca Caetani mise a disposizione sette stalloni della sua tenuta di Cisterna che erano stati rifiutati da potenziali acquirenti per il carattere nevrino. Su come andarono le cose le versioni divergono: stando al Messaggero ai cowboys occorsero 7 minuti per atterrare gli stalloni e 16 per sellarli e cavalcarli nel giro d’onore; secondo altri i tempi sarebbero stati più lunghi; il New York Herald riportò che per la doma erano bastati appena cinque minuti. Sempre il Messaggero titolò «La vittoria degli Americani» e ne scrisse come «clamorosa, sublimemente bella».

 

I butteri, e pure gli spettatori, furono turbati dai metodi violenti adoperati sui sauri. Qualcuno disse che tutti erano buoni a domare in quel modo, in gruppo e provocando ai cavalli dolore e ferite. Il secondo round sarebbe stato con i cavalli selvaggi del West, i broncos tanto apprezzati nei rodei per il carattere e la propensione a sgroppare. La somma messa in palio da Buffalo Bill era l’equivalente della paga di un anno dei butteri, e il premio ingolosì molti di loro.

 

Un giro trionfale troppo lungo

L’8 marzo, pioveva a dirotto ma stando alle cronache c’erano non meno di ventimila persone ad assistere all’arena di Prati. Si presentarono dieci butteri, tutti laziali (e non toscani come si favoleggerà in seguito), tutti determinati, 4 a cavallo e 6 a piedi: Domenico Bucci, Francesco Costanzi, Cesare Fabbri, Achille Fasciani, Alfonso Ferrazza, Augusto Imperiali, Achille Laurenti, Angelo Petecchi, Bernardino Quinti e Filippo Valentini. Valentini bloccò il primo stallone americano, che venne sellato e poi montato da Ferrazza. Anche il secondo fu preso al laccio e sellato, Imperiali  gli salì in groppa e fece un giro trionfale guidandolo con una sola mano, tra applausi e ovazioni. Per il terzo cavallo non ci fu tempo perché Buffalo Bill, entrato sull’arena sul suo sauro bianco, interruppe l’esibizione sostenendo che il tempo limite prefissato (5 minuti a cavallo, quindi dieci minuti per i due) era stato superato di 30” a causa del giro di campo.

 

Naturalmente non pagò quanto promesso. Si racconta che al ricevimento serale comunque tenuto dal duca abbia ammesso la sconfitta, senza dare comunque seguito al corrispettivo. Augustarello rimaneva con le tasche vuote ma si godeva il momento di gloria, immortalato pure in posa fotografica. Il Messaggero, il 9 marzo, rovesciò il titolo di qualche giorno prima con «Vittoria dei butteri romani». Cody, da subito, venne ribattezzato dai romani “er cappellaccio”. Si disse che le mille lire che Buffalo Bill non volle pagare gli vennero sfilate comunque e con gli interessi: approfittando della poca dimestichezza degli americani con la valuta italiana, alla cassa vennero rifilate alcune banconote false di alto taglio.