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AGI – Oltre 330 artisti e collettivi che vivono in 80 Paesi, inclusi Hong Kong, Palestina e Porto Rico. Ottantasette partecipazioni nazionali negli storici Padiglioni ai Giardini, all’Arsenale e nel centro storico di Venezia. Quattro i Paesi presenti per la prima volta alla Biennale Arte: Repubblica del Benin, Etiopia, Repubblica Democratica di Timor Leste e Repubblica Unita della Tanzania. Repubblica di Panama e Senegal partecipano per la prima volta con un proprio padiglione.

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Ecco i cinque (più uno) padiglioni da non perdere

 

1. Giappone – Giardini

 

Una sorta di enorme distillatore in funzione, elettrodi che spuntano da frutta marcescente, odore di muffa e di decomposizione e poi la scoperta: l’elettricità necessaria ad alimentare una serie di lampadine a basso voltaggio è prodotta interamente dalla frutta in decomposizione. Un’opera di Yuko Mohri (Kanagawa, 1980), che fa riflettere sul senso e sulle risorse della natura. Curiosa, stimolante, coinvolgente (anche semplicemente per via dell’emanazione di un profumo umido di fiori che aggiunge l’olfatto agli altri sensi coinvolti nell’esperienza). 

 

2. Polonia – Giardini

Decisamente toccante l’opera del collettivo artistico ucraino Open Group. La mostra, intitolata “Repeat after Me II”, presenta due video che ritraggono i rifugiati della guerra in Ucraina mentre ripetono i suoni dei proiettili, dei colpi di cannone, delle sirene e delle esplosioni, accompagnati da un testo che descrive un’arma letale. Suoni, familiari ai membri del collettivo ed enfatizzati in modo inquietante dall’uso di microfoni, suggerendo quasi la possibilità di un karaoke, quasi ad indicare “la colonna sonora di una guerra”.

 

3. Italia – Arsenale

Sovraccarichi di stimoli l’approdo al Padiglione Italia è una sorta di oasi di pace. Quello nato dalla collaborazione tra l’artista Massimo Bartolini (Cecina, 1962) e il curatore Luca Cerizza è infatti un padiglione minimal, quasi zen (parola quanto mai adatta visto che al centro di una immensa sala compare una minuscola statuina del pensatore Bodhisattva). Accanto a questa l’installazione Due qui/To Hear, inno all’importanza dell’ascolto e della pausa. Qui, in una selva di ponteggi, alcuni organi meccanici producono melodie continue attorno ad una vasca circolare dove un’onda armonicamente ripete se stessa.

 

4. Corderie – Arsenale

Mappe, culture, viaggi, peregrinazioni, migrazioni. Il tema della 60esima edizione elevato all’ennesima potenza sotto ogni aspetto e da ogni prospettiva. Al centro degli incredibili spazi dell’Arsenale di Venezia (che già di per sè valgono una visita) una interessante installazione in cui su una decina di megaschermi alcune mani tracciano le mappe della loro migrazione raccontandone tappe e ragioni. 

 

5. Stati Uniti – Giardini

 

Per la prima volta un artista indigeno e queer, Jeffrey Gibson, fa la sua storica apparizione al Padiglione degli Stati Uniti con “The space in which to place me”. Accompagnato dalle curatrici Abigail Winograd e Kathleen Ash-Milby, membri della Navajo Nation e esperte d’arte nativo-americana al Portland Art Museum, Gibson trasforma il padiglione in un vibrante tributo alle culture marginalizzate e oppresse nelle loro terre ancestrali. Attraverso dipinti, poesie visive e sculture di perle adornate con motivi tipici delle tribù indiane, l’opera di Gibson offre un potente riflesso delle lotte e delle esperienze delle comunità indigene. 

 

5+1. Vaticano – Carcere femminile di Venezia

 

Il Padiglione della Santa Sede  intitolato “Con i miei occhi” (Bruno Racine e Chiara Parisi) è allestito in un luogo decisamente diverso da quelli solitamente usati per la Biennale Arte: la Casa di reclusione femminile della Giudecca. Si tratta di un percorso unico e senza precedenti: le opere sono il frutto dell’incontro tra gli artisti e le ottanta detenute e la stessa visita è un incontro tra il pubblico avviene e le ospiti dell’istituto di pena.

 

 

 

AGI – Con una clamorosa sentenza il Tribunale di Torino ha accolto il ricorso presentato da Codacons, Associazione Utenti dei Servizi Radiotelevisivi e Adusbef, accertando la pratica scorretta messa in atto dall’azienda Balocco sul caso del pandoro “Pink Christmas” griffato Ferragni, e l’ingannevolezza dei messaggi lanciati al pubblico sulla campagna di beneficenza associata alla vendita del prodotto. Lo segnala lo stesso Codacons in una nota. Una sentenza importantissima – spiega l’associazione dei consumatori – che ora da un lato apre la strada ai risarcimenti in favore di tutti i consumatori che avevano acquistato il pandoro in questione, dall’altro aggrava la posizione di Chiara Ferragni nell’indagine per truffa aggravata condotta dalla Procura di Milano.  

 

 

“Ringraziamo l’Antitrust per aver accolto la nostra denuncia sul caso del pandoro Balocco, sollevando cosi’ la questione della poca trasparenza sulla beneficenza in Italia”. Lo afferma il Codacons in una nota. Dall’esposto dell’associazione è nata l’istruttoria dell’Autorità’ citata oggi dal Presidente Rustichelli nella relazione annuale. “Quando abbiamo denunciato l’opacità dell’operazione Ferragni-Balocco siamo stati i soli in Italia ad evidenziare come qualcosa non funzionasse in tema di beneficenza e sponsorizzazioni – spiega il presidente Carlo Rienzi – Grazie all’azione dell’Antitrust che ha ritenuto fondata la nostra denuncia, è stato scoperchiato il vaso di Pandora che ha portato alla luce attività illecite sanzionate con multe pesanti. Ma ancora non basta. L’Autorità’ deve ampliare il suo raggio d’azione indagando a tutto campo sull’operato degli influencer, che sempre più spesso realizzano sui social network attività di marketing, pubblicità e sponsorizzazioni in modo ambiguo e poco trasparente, colpendo milioni di utenti ed eludendo le norme di settore” – conclude Rienzi. 

 

AGI – Un romanzo che guarda al passato per spiegare le nevrosi del presente, un’idea nata durante un viaggio su un’isola che oggi è celebrata meta turistica, ma fino a un secolo fa era un luogo dal quale gli uomini fuggivano in cerca di fortuna e le donne si spaccavano la schiena la mattina sulle barche da pesca e la sera sui campi per non patire la fame.

 

Non l’ennesima storia di emancipazione femminile – anche se le protagoniste sono prevalentemente donne – né un semplice inno alla resilienza, ma un modo per restituire verità storica a un momento e a un luogo in cui essere ‘femmina’ significava innanzitutto essere “consapevoli del proprio ruolo”.

 

“Lo spunto è venuto da un viaggio a Lipari in cui scoprii la storia delle donne pescatrici e le testimonianze raccolte dall’antropologa Macrina Marilena Maffei” racconta Francesca Maccani, autrice di ‘Agata del vento’ (Rizzoli, 304 pagine, 17 euro) “e da lì mi si è aperto un mondo in cui, sullo sfondo di eventi realmente accaduti, si muovono personaggi altrettanto reali ma ricchi di suggestioni, come le guaritrici e le indovine, le cosiddette ‘majare’ da alcuni considerate alla stregua di streghe ma comunque forti di un ruolo che era la stessa società a riconoscere loro“.

 

Donne che “paradossalmente rispetto a noi donne di oggi erano estremamente libere”, che verrebbe da dire, è necessario raccontare per sfuggire ai luoghi comuni letterari. “Mi sto rendendo conto che c’è molta sofferenza nelle donne sottoposte a una pressione sociale e mediatica molto forte: devono essere wonderwomen, ma senza lamentarsi; devono essere ironiche e fighe e questo carico di aspettative sociali fanno sì che vadano un po’ tutte in burn-out. C’è una sofferenza tutta contemporanea che deriva dalla perdita di quell’idea che un tempo le donne avevano di loro stesse e che era tutta proiettata sul portare avanti il proprio dono”.

 

Leggendo ‘Agata del vento’ viene quasi da pensare che le donne del passato possano essere un modello per quelle del presente. “Per il fatto di potersi permettere il lusso di essere quello che erano godendo anche del rispetto che esulava dal giudizio estetico e sociale, sì: potrebbero essere quel modello di forza e di autodeterminazione che oggi noi non riusciamo a portare avanti” dice Maccani, “Ci manca il rispetto delle figure depositarie di una funzione sociale di base – medici e insegnanti – e la capacità di allargare lo spettro del rispetto alle funzioni sociali senza limitarlo a quello del genere”.

 

Agata non è un personaggio in linea con le ‘Donne dell’Acquasanta’, le operaie della manifattura tabacchi di Palermo protagoniste del precedente romanzo di successo della scrittrice. “È uno modo diverso di raccontare uno spaccato femminile” dice Maccani, “quello era più sociale e corale, questo invece contempla una sfera sensoriale altra rispetto a quella maschile, legata alla magia, alla cura, al sentire e al vedere cose che gli altri non vedono e non sentono. Determinate sensibilità che fanno parte di un patrimonio che stiamo perdendo perché ce ne stiamo allontanando, troppo concentrate come siamo sul giudizio altrui”. 

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