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AGI – Sarebbe di origini nobili il 23enne fermato dalla polizia di Torino per l’aggressione a colpi di machete avvenuta a Mirafiori ai danni di un 24enne, a cui è stata amputata la gamba. Il fermato, Pietro Costanzia di Costigliole, discenderebbe per l’appunto dai signori di Costigliole, antica famiglia piemontese. Il fatto è avvenuto lunedì sera, quando la vittima stava rientrando a casa in compagnia della fidanzata a bordo di un monopattino. In via Panizza è stato affiancato da due giovani su uno scooter, uno dei quali è sceso è lo ha colpito con il machete.  

AGI – L’attentato partigiano di via Rasella del 23 marzo 1944 fu un atto di guerra giuridicamente riconducibile allo Stato italiano che il 13 ottobre 1943 aveva dichiarato guerra al Terzo Reich, ma per il diritto internazionale va considerato illegittimo dal punto di vista materiale, avendo a riferimento l’art. 1 della Convenzione dell’Aja del 18 ottobre 1907: i Gap (Gruppi di azione patriottica) che attaccarono l’11ª Compagnia del Polizeiregiment “Bozen” (formato da altoatesini, buona parte dei quali già militari del Regio Esercito prima dell’8 settembre 1943) non erano un esercito regolare e neppure un corpo volontario che rispondesse a specifici requisiti; la squadra di partigiani, pur facendo parte di un’organizzazione militare clandestina che seguiva le direttive del Comitato di liberazione nazionale e della sua giunta militare, non aveva un rapporto organico di subordinazione e quindi difficilmente avrebbe potuto essere considerata «legittimo organo belligerante», come riconosciuto giuridicamente nei processi. La rappresaglia, compiuta l’indomani dalle SS con l’eccidio delle Fosse Ardeatine, pur ammessa in linea di principio come mezzo di autotutela da un’aggressione, nel caso specifico non solo non rispondeva al principio della proporzionalità, ma esulava pure da quelli della prevenzione o della repressione, potendosi configurare come atto ingiusto e illegittimo di vendetta. Un crimine, appunto.

Una rappresaglia illegittima

Sulla vicenda storica da anni si affastellano polemiche, strumentalizzazioni, controversie politiche e semplificazioni manichee. L’esecuzione di 335 innocenti non aveva nessun appiglio legale nelle norme internazionali sulla rappresaglia o sulla repressione collettiva, costituendo pertanto un omicidio plurimo continuato che niente poteva giustificare sul piano giuridico e men che meno da quello morale. L’opportunità storica e politica di quell’attentato è un altro discorso, poiché il gesto dimostrativo della Resistenza innescò la rabbia nazista ma non l’auspicata rabbia popolare dei romani contro l’occupante. L’attacco rientrava dunque nelle possibilità operative dei Gap, ma va precisato che in nessun caso i suoi esecutori essi avrebbero avuto l’obbligo morale di presentarsi ai tedeschi come responsabili. Il disegno criminale dell’eccidio delle Fosse Ardeatine è poi comprovato dal fatto storicamente accertato che le autorità tedesche non affissero alcun bando militare di intimazione a consegnarsi a pena di rappresaglia nella consueta proporzione di dieci italiani per un tedesco, come peraltro concordemente dichiararono pure durante i processi a loro carico il Feldmaresciallo Albert Kesselring e il capo della polizia tedesca a Roma (Sicherheitsdienst, SD), il tenente colonnello SS Herbert Kappler. Non ce ne sarebbe stato neppure il tempo: tutto il dramma si consumò tra le ore 15 del 23 marzo e le 19.30 del 24.

Il generale Mälzer: radere al suolo il quartiere e fucilare tutti

I tedeschi non provarono neppure a cercare i colpevoli, ma si limitarono ad applicare lo spirito di vendetta che Adolf Hitler voleva addirittura nella stratosferica proporzione di cinquanta a uno. La popolazione non poteva in nessun modo rispondere di responsabilità collettiva (per di più essa non poteva assolutamente essere sottoposta alla pena di morte, in base all’art. 50 della Convenzione dell’Aja) e le vittime erano sicuramente estranee a quell’attentato per ideazione, esecuzione e conseguenze. A via Rasella era stata fatta esplodere una carica di tritolo, nascosta in un carretto da netturbino, innescata da Rosario Bentivegna. I morti erano 32 e i feriti 55, e tra le vittime anche un ragazzino di 12 anni, Pietro Zuccheretti, e un altro civile romano. Il comandante della piazza di Roma, generale Kurft Mälzer, in quello scenario agghiacciante di sangue e urla aveva minacciato di radere al suolo l’intero quartiere e fucilare tutti i residenti. Il console Eitel Möllhausen e l’addetto culturale dell’ambasciata tedesca, il colonnello SS onorario Eugen Dollmann, interprete ufficiale di Hitler, erano riusciti a ricondurre il generale, ubriaco di alcol e di rabbia, a più miti consigli. Peggio di lui solo Hitler, che pretendeva la fucilazione di 1.650 ostaggi che non c’erano. E solo per questo si era ripiegato sulla canonica proporzione dei bandi militari di dieci a uno. Kappler pretese altri dieci nomi non appena seppe del decesso di un ferito del Bozen, che portava le perdite tedesche a 33 poliziotti, raggiungendo quota 330, ma la fretta con cui si integrò l’elenco tedesco dei 270 condannati a morte con la lista richiesta alle autorità italiane del questore Pietro Caruso, e con cancellazioni e integrazioni frettolose, se ne misero 5 in più: c’erano anche ebrei e arrestati dell’ultim’ora e persino alcuni che si ritrovarono nel gruppo casualmente.

Condanna processuale e condanna morale

Kappler fu processato nel 1948 per le vittime in eccesso, ma la sentenza venne poi riformata per l’intera strage. Si difese asserendo di aver dovuto obbedire agli ordini, ma è acclarato che la disobbedienza non potesse essere punita col plotone d’esecuzione: lo stesso codice penale militare tedesco del 1926 all’art. 47 escludeva la pena di morte come sanzione per aver disobbedito a un ordine criminoso. L’ufficiale SS non aveva alcun diritto di integrazione della lista perché il numero di 320 era già stato fissato e infatti il manifesto ufficiale fatto affiggere a Roma il 25 marzo riportava proprio questa cifra. L’incarico a lui era pervenuto dal generale Mälzer, dopo che il maggiore Hans Dobek, comandante del Bozen, si era rifiutato di procedere con i suoi uomini all’esecuzione ordinata da Hitler a Kesselring. Il comandante della 14ª Armata, generale Eberhard von Mackensen, riteneva sufficiente l’esecuzione di persone effettivamente già condannate a morte e comunque era per limitare numericamente la rappresaglia; si era chiamato fuori e aveva tenuto fuori la Wehrmacht: «la Polizia è stata colpita, la Polizia deve provvedere». La giustizia degli uomini presentò il conto in tre processi: a Roma nel 1946 a Mälzer, a Venezia nel 1947 a Kesselring, a Roma nel 1948 a Kappler. Condanna a morte per Kesselring e Mälzer (pena commutata nel carcere a vita) ed ergastolo per Kappler, che nel 1977 riuscirà avventurosamente a evadere e a riparare in Germania dove morirà di cancro l’anno seguente. Ergastolo anche per  il tenente Erich Priebke, con sentenza del 1998. Rosario Bentivegna riceverà la medaglia d’argento al valor militare per l’attività nei Gap a Roma e per l’attentato del 23 marzo 1944.

«Due enormi cumuli di cadaveri»

Alle Fosse Ardeatine, come dichiarerà il medico legale professor Attilio Ascarelli alle Autorità alleate e in un’udienza del processo del 1948, i carnefici delle SS lasciarono «nello sfondo di due gallerie (…) due enormi cumuli di cadaveri che occupavano uno spazio di circa 5 metri di lunghezza e 3 di altezza e 1,50 di altezza. Le salme non apparivano distinte ma ammucchiate, sovrapposte, strettamente adese, del tutto irriconoscibili». A tutt’oggi due vittime sono senza nome e di cinque è stato impossibile riconoscere i resti.

 

 

AGI – Circa 300 persone si sono radunate stasera a Cagliari, in piazza Garibaldi, per una manifestazione di solidarietà a Ilaria Salis, l’insegnante e militante antifascista, detenuta da oltre un anno in un carcere di massima sicurezza a Budapest, in Ungheria, in attesa di giudizio. All’evento partecipa il padre Roberto, che nel capoluogo sardo ha frequentato il liceo classico Siotto. Promotore è stato il Comitato ‘Da Cagliari per Ilaria Salis’, composto da un gruppo di cittadine e cittadini di Cagliari e della Sardegna, in collaborazione con una quarantina tra associazioni e movimenti sindacali, incluse la Cgil, col segretario generale sardo Fausto Durante, e la Confederazione sindacale Sarda, con Giacomo Meloni. Presente anche il segretario del Pd sardo, Piero Comandini, oltre a ex compagni di liceo di Roberto Salis.

 

Video di Roberta Secci / AGI 

 

“Siamo convinti che anche qui in Sardegna sia necessario far sentire la voce della solidarietà e del sostegno alla lotta di Ilaria e della sua famiglia per il rispetto dei suoi diritti”, aveva spiegato, alla vigilia del presidio, Pietro Pani, referente del Comitato organizzatore che intende tenere alta l’attenzione sul caso. “Siamo tutti e tutte Ilaria Salis“, hanno detto i manifestanti. Il 28 marzo prossimo a Budapest è stata fissata la prossima udienza del processo, in cui l’insegnante e’ accusata di aver partecipato agli scontri del 10 febbraio 2023 nella capitale ungherese con i neonazisti europei alla vigilia del “Tag der Ehre”, la Giornata del Ricordo. Le viene contestato di aver aggredito, assieme altri manifestanti, due partecipanti neonazisti, che avevano riportato ferite lievi. Ilaria Salis si è dichiarata innocente. La difesa presenterà istanza per gli arresti domiciliari in Ungheria. Finora una richiesta analoga e’ stata presentata tre volte, ma per i domiciliari in Italia.  

 

“Ilaria sarà contenta, le mostrerò le foto di questa bella manifestazione per lei”

 

Roberto Salis, padre dell’insegnante e militare antifascista detenuta a Budapest e da oltre un anno in attesa di giudizio ha ringraziato i tanti accorsi stasera a Cagliari per sostenere lui e la figlia e chiederne la liberazione. Accanto a lui, un suo ex professore e gli ex compagni della sezione E del liceo Siotto. “Qualcuno della maggioranza di centrodestra in Italia sostiene che dev’essere mia figlia a dimostrare la sua innocenza eh no non è cosi’ che funziona. È l’accusa che deve dimostrare che qualcuno è colpevole”.

 

“L’Ungheria è una nazione in cui vige un sistema sociale che è definibile come nazionalismo etnico”, ha detto Salis dopo aver ripercorso il momento dell’arresto e le settimane durissime di carcere raccontate da Ilaria in una lettera di 18 pagine consegnata al suo avvocato. Nelle sue parole anche una condanna della manifestazione neonazista che sua figlia era andata a contestare nel febbraio 2023 a Budapest. “Orban ha preso il potere in modo democratico, certo”, ha chiosato Roberto Salis. “Qui si continua a dire che dove c’è un’elezione allora va bene tutto: questi sono democratici perché hanno fatto le elezioni, come è successo anche in Russia recentemente. Ma se qualcuno prende il potere con un’elezione democratica poi pero’ non può fare il tiranno, perché se fa il tiranno non c’è più una nazione democratica. Anche Hitler ha preso il potere con un’elezione democratica ha fatto poi abbiamo avuto il nazismo”.